Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va – Note bandite: nel distruggere la gabbia

Nella gioia e nella rabbia, nel distruggere la gabbia… c’è, c’è, sì c’è!” cantava Gianfranco Manfredi in “Ma chi ha detto che non c’è” agli albori del ’77. Oltre a ricordarlo attraverso questa citazione di una delle sue canzoni più famose, ribadiamo questa scelta del titolo per affrontare in modo critico il tema del carcere attraverso la musica. A distanza di 5 anni dalle rivolte avvenute l’8 marzo del 2020, non è di certo diminuito il bisogno di un mondo liberato, anche dalle prigioni, un mondo che canzoni come quelle di Gianfranco ci possono aiutare ad immaginare. Tre canzoni molto diverse e “distanti” tra loro ci raccontano la vita dietro alle sbarre, nelle prigioni del Bel Paese.

1 FABRIZIO DE ANDRÈ – NELLA MIA ORA DI LIBERTÀ

2 5° BRACCIO – MAI PIÙ TORTURA

3 SERPE IN SENO – MARTEDÌ

 

1 FABRIZIO DE ANDRÉ – NELLA MIA ORA DI LIBERTÀ

Le canzoni di Fabrizio De André sembrano essere immortali, sicuramente per la sua voce, forse per le raffinate scelte musicali, ma anche per l’approccio che aveva a temi colossali e a singole storie di vita. Il cantautore genovese ha firmato indelebili inni pacifisti e antimilitaristi e nelle sue strofe emergono emarginati di ogni sorta e di ogni dove. La vicinanza ai “santi senza Dio” mostra una visione “romantica” dell’anarchismo, che non rimase solamente un’influenza culturale ma si tradusse spesso in un sostegno alla stampa e alle iniziative anarchiche.

Nel 1973 De André pubblica “Storia di un impiegato”, un concept album che propone una personale lettura del Sessantotto. Il disco racconta di un normalissimo impiegato, figura senza una precisa appartenenza di classe, che attraverso errori e riflessioni capisce che solo una lotta condivisa potrà davvero cambiare le cose. Il pezzo finale del disco è “Nella mia ora di libertà”, ad oggi uno dei “classici” della canzone politica. Anche grazie a cover inaspettate come quella punk dei Gavroche o l’interpretazione a Sanremo 2022 di Giovanni Truppi che, assieme a Mauro Pagani e Vinicio Capossela, la portò su Rai1 con il cuore rosso-nero di Gogliardo Fiaschi appuntato sul petto.

Di respirare la stessa aria / di un secondino non mi va / perciò ho deciso di rinunciare / alla mia ora di libertà”, recita l’iconico incipit del brano, ripreso anche nel mondo ultras.

Ci hanno insegnato la meraviglia / verso la gente che ruba il pane / ora sappiamo che è un delitto / il non rubare quando si ha fame”. Nei versi di De André emergono le galere abitate da proletari, poveri cristi costretti al furto da una vita di fame e privazioni. Dal ’68 inizierà a consolidarsi la presenza di detenuti politici che si mescoleranno e trascineranno in una lunga e proficua stagione di lotte i detenuti “comuni”. Solo verso la fine del brano il protagonista parla al plurale, superando la rivolta individuale dell’inizio, aprendosi ad una rivolta di massa, tra uguali mossi da bisogni comuni. “Di respirare la stessa aria / dei secondini non ci va / abbiamo deciso di imprigionarli / durante l’ora di libertà”. “Nella mia ora di libertà” assieme a “La domenica delle salme” resta uno dei brani più politici ed espliciti di Faber, che nella conclusione riprende “Canzone del Maggio”, che suona tremendamente attuale: “Per quanto voi vi crediate assolti / siete lo stesso coinvolti”.

 

2 5° BRACCIO – MAI PIÙ TORTURA

I 5° Braccio furono tra gli agitatori del primissimo punk italiano degli Ottanta. La band rimase attiva solo per il 1982, alcuni di loro faranno poi parte di altre leggende hc torinesi come Negazione, Contrazione e Panico. Furono loro a introdurre tra i primi vagiti del punk in italiano numerose canzoni sulla repressione del potere poliziesco, militare e religioso, e quindi anche sulle carceri. “Mai più tortura” si concentra sulla tortura perpetrata all’interno dei luoghi repressivi per eccellenza divenendo esplicitamente un “atto di denuncia contro la tortura ai prigionieri detenuti nelle nostre galere”. La canzone è una delle più iconiche del gruppo, tanto che risulta essere l’unica incisa su vinile nella compilation “Papi, Queens, Reichkanzlers & Presidennti” uscita nell’82 per la Attack Punk Records. I 5° Braccio fecero uscire poi molti pezzi in diverse compilazioni su cassetta, ma bisognerà attendere il 2007 per poter ascoltare la loro opera omnia in cd, “Blackout a Torino” pubblicata da “E.U. ’91 Produzioni”. La scelta del nome della band nasce in reazione alle ingenti incarcerazioni dei primi anni ’80 che colpirono il movimento e non solo, con riferimento alla parte del carcere riservata ai detenuti politici, come rivelano loro stessi in un’intervista riportata integralmente nel DVD “Punx. Creatività e rabbia” edito dalla Shake con un ricco libretto. Nei loro pezzi restano presenti molti slogan “Mai più tortura nelle galere /mai più tortura nelle galere”, ma non per questo sono sterili e inconcludenti. La lucidità e la prontezza della loro denuncia, non solo verso regimi dittatoriali, ma proprio nei confronti di paesi che si proclamano “democratici”, “La tortura è anche in Italia non solo in Salvador / la tortura è anche in Italia non solo in Argentina”. Il testo dunque resta attuale dal momento che l’Italia non ha nemmeno una legge seria in materia di tortura ma, da paladina dell’Occidente, non ha problemi a dispensare patenti di civiltà e umanità nel mondo. Nel testo si fa riferimento a espliciti trattamenti, “Scariche ai genitali, litri di acqua e sale, aghi sotto le unghie, pestaggi regolari / tortura democratica legalizzata sui prigionieri politici torturati e sequestrati”, nei primi anni ’80 si sentono ancora le recrudescenze contro le lotte scaturite nel decennio precedente.

 

3 SERPE IN SENO – MARTEDÌ

I Serpe In Seno è da più di 10 anni che spingono il loro rap a due voci nel solco del “Kill the rich or die tryin”, canzonando il becero e materialista “Diventa ricco o muori provandoci”, precetto del gangsta rap made in Usa. Furono tra i primissimi, all’interno dell’hip hop underground e militante, a strabordare oltre le palizzate degli stilemi della “vecchia scuola” in “L’isola di Pasqua dell’universo”, nel suo piccolo uno spartiacque del genere. Fin dal 2016 avevano mostrato come si potesse ammiccare alla trap e a stili distanti dalle posse o dall’old school, mantenendo chiari ed espliciti i contenuti sociali e un preciso orientamento politico. “Sneaker nuove eppur bisogna andare”, per dirlo con parole loro. Bisognerà aspettare il 2022 per ascoltare nuove hit, danzerecce ma roventi ed esplosive. Con nuove sonorità i Serpe In Seno sanno infatti rivendicare umili origini: “Capisci da dove vengo se guardi le mani a mio padre”, e continuano a scagliarsi contro i miti mafioso-delinquenziali dei nuovi rapperz, rivendicando percorsi politici nel loro hip hop, in barre come “Vantati se la fai franca, mica se ti arrestano” o “Hai 20 K al collo, beh io li faccio di benefit”.

“Martedì” è un brano che parla di carcere con una prospettiva particolare e in cui emerge la sensibilità del gruppo verso certi temi. “Mi metto in fila al controllo pacchi / svuoto le tasche negli armadietti, / signore gitane svettano sui tacchi / rispondono a tono contro gli agenti / […] arrivo al reparto d’Alta Sicurezza / che sembro già in stato di ebbrezza”. Il secondo giorno della settimana si svela essere quello dedicato alle visite per le persone detenute nel carcere romano. Nello specifico il brano si rivela essere una canzone d’amore. “Oggi è martedì, giorno di colloqui / arrivo fuori Rebibbia in tiro come Rocky, / vorrei baciarti darti morsi sui lobi / ma intorno troppi occhi, tocca essere sobri”. Nel ritornello citano una celebre canzone d’amore, “Je pense à toi” di Amadou & Mariam, “Je pense à toi, mon amour, ma bien aimée [Ti penso amore mio, mia amata]”. Ma nel verso successivo viene introdotto un riferimento alla carcerazione, assente nel brano dei musicisti originari del Mali, “ne m’abandonnes pas en tant que j suis en captivité [non abbandonarmi, mentre sono in prigione]”. Ecco che forse “Martedì” riesce a parlare della quotidianità di chi è detenuto e di come agisce la repressione, ma mostra anche l’affetto portato all’interno delle mura. Le rime divengono un gesto d’amore che non si abbandona alla rassegnazione e all’isolamento. “60 minuti sono sempre pochi / la posta che arriva a singhiozzi, / spero che con una lettera mia / all’ufficio censura si taglino i polsi”.

En.Ri-ot

Related posts